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La signora Lucia, 92 anni ed energia da vendere

Signora Lucia Sull Albero

Lei è la signora Lucia Agnese Villella, in Aleni. Il 7 marzo compirà 92 anni e ha tuttora energia da vendere. Coltiva l’orto, va a funghi, scavalca muri, porta fiaschi pieni d’acqua dalla sorgente a casa (ah, guai a chiederle se vuole aiuto). Fa tutte le faccende domestiche e si arrampica ancora sugli alberi. E di questo ne abbiamo la prova. Tutto ciò, per mantenersi vitale e attiva, nonostante i rimproveri dei figli. Il suo, come quello di tutti i conflentesi della sua epoca, non è stato un passato semplice. La guerra, la fame, la miseria, il duro lavoro e i sacrifici hanno avuto un ruolo predominante nelle pagine della sua gioventù. Mentre l’amore, la pazienza, la forza d’animo, i sani principi, l’entusiasmo e l’ansietà del fare sono una costante della sua vita.

La gioventù della signora Lucia

“Mio padre morì lo stesso anno della mia nascita, il 1928. Io e miei sei fratelli siamo stati cresciuti da mia madre. Era argentina ma i suoi genitori avevano origini italiane. Mio padre, infatti, emigrò in America alla ricerca di lavoro e lì trovò l’amore. Qualche anno dopo il matrimonio, ritornarono in Italia con due figli piccoli e uno in grembo, poiché mio nonno paterno li richiamò. C’era bisogno di aiuto per coltivare le poche terre di proprietà. Mia mamma era una sarta, in campagna non ci aveva messo mai piede. Eppure lasciarono l’Argentina per andare a vivere a Cirignano. C’era na fhame e chiri tiampi, ca nissunu putiti immaginare a disperazione chi cc’era. (C’era una fame in quell’epoca, nessuno può immaginare la disperazione che c’era). Ma mia mamma non ci ha mai fatto mancare nulla, nemmeno l’istruzione.

signora Lucia Villella

Tutte le mattine, infatti, io e i miei fratelli ci incamminavamo per andare a scuola, da Mario Isabella. A piedi e scalzi. Le scarpe le mettevamo aru cavuniaddru (l’entrata del paese, ndr) per non rovinarle. Ho frequentato fino alla quarta elementare, poi ero rimasta l’unica e mamma, per paura di farmi percorrere tutto quel cammino da sola, non mi ci mandò più. Per merenda ricordo che ci preparava delle caldarroste e qualche fico secco. E quando rientravamo a casa ci faceva sempre trovare un piatto pronto. Generalmente patate o legumi accompagnati da verdura che cresceva spontanea: cardeddre, coste e vecchie, paparine, finocchi (cicoria selvatica, papaveri). Oggi le odio tutte queste verdure, così come il pane di castagne, e tantu chi nn’haju manciatu (per averne mangiato così tanto). Il pane bianco, a quei tempi, costava 26 lire, e quasi nessuno se lo poteva permettere. Mentre quello di farina di castagna abbondava. Il riso e il baccalà erano pure economici”.

E poi… la guerra

Con stenti e sacrifici, Lucia e i suoi fratelli, sempre accuditi dalla cara madre, crebbero. I fratelli più grandi andavano ara jurnata (a lavorare nei campi) per guadagnare 2 lire. Ma poi arrivò la guerra e la vita, già difficile di per sé, diventò ancora più cruda. La miseria ancora più forte. “Ci diedero una tessera con la quale potevamo avere del cibo, proporzionato alla numerosità della famiglia. A noi ci toccavano 6 chili di pasta, nera, amara cumu u fhele (amara come la bile), al mese, – sei chili di pasta al mese, per otto persone. Due dei miei fratelli, già sposati, furono chiamati al fronte. Uno fu mandato a Tripoli, lì contrasse la tubercolosi e fu rimandato a casa dopo qualche anno, ma la malattia era incurabile e morì nel ’42. L’altro, invece, sul finire della guerra fu fatto prigioniero e rimase fuori per circa dieci anni.

Lucia Agnese Villella e il cane

Ricordo ancora quando ci diedero la notizia che stava rientrando a Brindisi. Che felicità! Ma una volta arrivato, il suo camion pieno di militari ebbe un incidente: morirono tutti e furono tutti seppelliti lì. Non abbiamo mai avuto indietro il suo corpo, perché soltanto dopo molti anni lo stato diede il permesso di recuperarlo. La morte dei miei fratelli scosse mia mamma; la notte si svegliava e urlava. Ma siamo andati avanti, facendoci forza l’uno sull’altro, con sacrifici. Coltivavamo la terra, per il fabbisogno quotidiano di tutta la famiglia e per conservare cibo per l’inverno. Surache, fhicu siccate, castagne mpurnate (fagioli, fichi secchi, castagne infornate). Andavamo a raccogliere le castagne, scalze. Posavamo quei piedi nudi sui ricci, come se niente fosse, quasi avessimo una soletta incorporata, ma non sentivamo nulla. Mai mu mi nne ricurdessa de ste cose (Non vorrei mai ricordare queste cose).”

La fuitina della signora Lucia

Ma tutto, pian piano, si supera. “Eramu poveri, però i ‘nnamurati l’aviamu” (eravamo poveri però spasimanti ne avevamo)– ci racconta la simpatica signora Lucia. Molti erano i corteggiatori “ma arrivati aru cavuniaddru iu cce dicia: o ve vutati vue o me vuatu iu” (giunti alla fine del paese dicevo loro: o tornate indietro voi o me ne vado io). Rifiutò un bel giovane di Martirano, perché le promise che avrebbero comprato una bella casa, con un bel terreno da coltivare. Lucia era stata tutta la sua infanzia nella terra. Non ne voleva vedere più! E ci confessa la sua fuitina. Aveva vent’anni, infatti, quando lasciò la famiglia per ‘scapparsene’ con l’amato, Alberto. Suo fratello Elio era un po’ geloso e, da uomo di casa qual era, anche autoritario. Lei non aveva la libertà di uscire, nemmeno di andare alla novena dell’Immacolata.

Lucia E Alberto

E poi Alberto l’insisteva, nonostante lei, più razionale e pragmatica, gli faceva notare le difficoltà alle quali sarebbero andati incontro. Era indecisa. “U vidia e u vulia, mi nne jia, e me pintia. Si pue va male, cumu mi nne tuarnu ara casa?” (Lo vedevo e lo volevo, me ne andavo e me ne pentivo. Se poi va male, come faccio a ritornare a casa?) Ma, finalmente, la notte dell’epifania, con la complicità della sorella, ‘scappò’. Alberto, quindi, la spuntò, soprattutto perché le fece una promessa, quella che ogni donna vorrebbe sentire: “te fhazzu cumannare sempre a tie! E sta parola, fhijjuleddre mie, l’ha mantinuta” (Farò comandare sempre te! E questa parola, care mie, l’ha mantenuta). Il 19 marzo si sposarono.

Calliope

Alberto era calzolaio e barbiere ma purtroppo invalido di guerra; la tubercolosi gli portò via mezzo polmone, per questo ottenne, dopo vari anni, una pensione. La signora Lucia aprì una piccola putiga (negozio) nella quale vendeva accessori per la casa ed elettrodomestici. Lui ottenne un posto come collocatore. E, quindi, gli stenti del passato divennero solo un brutto ricordo. Lavorando sodo misero da parte il sufficiente per farsi una casa. Lucia non si risparmiò né riposò, “iu scappava da putiga ppe jire ad aiutare l’operai (Me ne andavo dal negozio per andare ad aiutare gli operai)”. Si aprirono anche un ristorante a San Mazzeo. Si chiamava “Calliope”, come una ragazza che aiutò Alberto quando fu soldato e che gli rimase molto impressa, ci racconta Lucia. Ma lei non ne era gelosa, quindi glielo concesse. Tra le prelibatezze c’erano tagliatelle fatte in casa, risotto ai funghi, capretto e patate frijute (fritte).

La signora Lucia festeggia 80 anni con i tre figli

Il passato ritorna nei ricordi di Lucia

Arrivarono, poi, i figli “ca haju addrivatu cumu juri intra e graste” (Li ho cresciuti e curati come fiori nei vasi). Come fece sua madre con lei e i fratelli, anche Lucia, con sacrifici, non fece loro mancare nulla. Ma il passato, a volte, ritorna vivido nei suoi pensieri. Insieme all’incredulità. “Cumu fhaciamu na vota, senza riscaldamenti, senz’acqua e corrente, quattru pirzune intra nu liattu. Guai cchi cce statu na vota. (Come facevamo un tempo, senza riscaldamenti, senz’acqua ed elettricità, quattro persone in un letto).” Senza tutte le comodità e i servizi che abbiamo oggi, un cce puazzu pinzare! A fhame se tagliava cu ru curtiaddru” (Non posso pesarci! La fame si tagliava con il coltello).

La signora Lucia, 92 anni ed energia da vendere ultima modifica: 2020-03-02T09:30:00+01:00 da Serena Villella

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