Terra d’elezione del brigantaggio per eccellenza. La Calabria, nel corso della storia, ha avuto modo di far conoscere all’intero stivale la sua veste più selvaggia e brada. L’immagine di Calabria ferox è impressa nell’immaginario collettivo da secoli ed è comunemente ritrovabile in tutti i diari di viaggio degli stranieri che si spingevano nella nostra regione, vuoi per un motivo o per un altro. Essi erano tremendamente intimoriti dal clima ostile, dalle difficoltà logistiche, dalle istituzioni sostanzialmente assenti. Ma, ciò che temevano di più, erano proprio i briganti. Figure di una potenza narrativa pazzesca, bastava solo pronunciare il nome – Panedigrano, per esempio – che si facevano i peggiori scongiuri o ci si allontanava a gambe levate. Questo, dal punto di vista esterno. Perché i calabresi avevano una sorta di riverenza nei confronti dei briganti. Molte famiglie, addirittura, si auguravano che il figlio potesse entrare a far parte del giro, una volta cresciuto.
C’era questa sorta di mito, sul quale si costruiva un intero palcoscenico folkloristico. Il brigante rubava ai ricchi per dare ai poveri. O ancora, era un eroe della comunità. In realtà c’era poco di vero. I briganti erano comuni criminali. E il mestiere del brigantaggio era purtroppo funzionale al mantenimento e sostentamento del sistema. Questo perché dietro ai malfattori c’era un rudimentale, quanto prestigioso circolo economico. I banditi diventavano tali non in quanto individui che avevano subito angherie, ma in quanto assetati dei vantaggi che si potevano trarre. In più, gli stessi padroni li temevano e preferivano accordarsi con loro, anziché rivolgersi alle autorità. Generalmente facili da individuare, per via degli abiti sgargianti e dei medaglioni che indossavano, i briganti passavano l’estate in montagna. Era, invece, comune, d’inverno, trovarli in paese. Perché questo antefatto? Per introdurre il protagonista della storia odierna.
E Panedigrano…?
Il percorso evolutivo di Panedigrano è piuttosto particolare e, per certi versi, atipico. Nicola Gualtieri (suo vero nome), figlio maggiore di Gennaro, nasce a Conflenti nel 1753. Sebbene appartenente a una famiglia dedita prevalentemente a contado e pastorizia, alle dipendenze di don Francesco Calabria, egli non si rassegnò – a differenza dei fratelli – a stare sotto padrone e imparò il mestiere di sarto. Un passaggio significativo avviene quando sua sorella subisce un abuso da un tale imparentato con i suoi ex padroni. Andando di pari passo alla mentalità del tempo, Gualtieri non tarda a vendicarsi. Uccide lo stupratore e giura odio eterno ai “galantuomini”. Si dà, dunque, alla macchia, rendendosi colpevole di alcuni reati. Viene catturato, riesce a evadere e continua a vivere nelle foreste del Reventino, protetto dalla gente del posto per i motivi visti nel paragrafo precedente. La plebe meridionale tendeva a vedere il brigante come benefattore.
Presagi di guerra
Allo scoppiare della Rivoluzione Francese, il Regno di Napoli aderì alla prima coalizione antifrancese. Nel 1796, le truppe napoleoniche iniziarono a riportare significativi successi in Italia. Nel 1798, approfittando del decreto emesso dal re Ferdinando IV, Panedigrano si arruolò per liberare Roma dagli stessi francesi (manovra che costò iniziali critiche allo stesso Ferdinando). Per le capacità dimostrate sul campo, ottenne il grado di sergente. Ma non finisce qui. Quando il generale Ruffo decide di organizzare la sua armata, Gualtieri si fionda dalla Sicilia a Conflenti. Vi organizza una vera e propria banda armata, composta da braccianti e contadini, e se ne pone a capo. Grazie alle sue spiccate abilità militari, ottiene la riconquista della città di Napoli. I sovrani borbonici lo nominarono Maggiore dei Reali Eserciti. In più, gli assegnarono una rendita annua di quarantamila ducati, oltre a molti terreni e case.
I successi militari di Panedigrano
Il 15 febbraio 1806 le truppe francesi riconquistarono Napoli e Napoleone pose sul trono il fratello Giuseppe. A seguito di ciò, le forze borboniche che resistettero ai francesi subirono una pesante sconfitta anche a Campotenese. Ciò permise l’occupazione di alcuni territori calabresi, tra i quali, il 12 marzo, Amantea. Molti cittadini furono incarcerati e accusati di essere filo-borbonici, spesso per rancori personali. Esempio illustre, il maggiore dei figli di Nicola Gualtieri, Fortunato, catturato e giustiziato all’età di diciotto anni. È di questo periodo la fitta corrispondenza con la regina Carolina. Il 4 luglio 1806 partecipò alla battaglia di Maida. Qui, i francesi furono distrutti dagli inglesi del generale Stuart.
Una settimana dopo, Panedigrano liberava Cosenza. Stessa sorte toccò a Catanzaro. Inseguì, infine, i francesi verso la Lucania. Le popolazioni lo accoglievano come un liberatore, mettendogli a disposizione vitto e alloggio. Grazie alla sua azione, tutta la Calabria fu liberata ed egli poté aprirsi la strada verso Napoli. Fu tuttavia impossibilitato a proseguire, a causa della massiccia reazione dei francesi guidati dal maresciallo Massena. Rientrato in Sicilia, tentò diversi sbarchi in Calabria per soccorrere il figlio Paolo, poi ucciso ad Amantea. La regina Carolina, intanto, lo esortava a non mollare. Faceva leva sull’orgoglio, sull’attaccamento alla causa borbonica e sulla sete di vendetta per la morte dei figli. La morte dell’infaticabile Panedigrano giunge nel 1828, cancellando la sua esistenza, ma non la sua storia. Ancora oggi viva, ancora oggi tramandata.